TREVISO Tutto può iniziare con un insistente gelosia, talvolta mascherata da impeto d’amore.
Dottoressa, poco meno di sei mesi dal suo insediamento, quale idea si è fatta della provincia di Treviso per quanto riguarda i casi di violenza di genere?
«I casi sono nella media, forse al di sotto. Si tratta di un territorio strutturato da questo punto di vista. Al mio arrivo molti centri anti-violenza sono venuti a presentarsi in Questura. Sono molto attivi, dinamici e anche i Comuni danno una grossa mano. La rete c’è ed è attiva, soprattutto per quanto riguarda il percorso d’uscita delle donne dai fenomeni di violenza».
E per quanto riguarda le strutture che aiutano l’uomo?
«Ecco su quel fronte occorre ancora lavorare molto, ma è un problema di tanti territori e province. È un settore che dovrebbe espandersi, come abbiamo fatto col protocollo Zeus».
Quali ritiene siano gli interventi contro la violenza domestica e di genere più essenziali in provincia?
«Direi gli interventi delle volanti nelle abitazioni per liti familiari. Quando si arriva al primo spintone o schiaffo, i nostri operatori sono ormai formati per riconoscere subito una situazione che potrebbe richiedere l'ammonimento del Questore, anche senza una denuncia formale. Prima di emanare il provvedimento, naturalmente, facciamo delle verifiche. Questo è cruciale, perché spesso il ritorno in queste abitazioni avviene per situazioni più gravi: dallo schiaffo si passa al coltello puntato alla gola. È l'escalation tipica della violenza di genere».
Quali strumenti avete a disposizione e come vengono utilizzati?
«L'ammonimento del Questore è uno strumento fondamentale, perché permette di intervenire nelle fasi iniziali del ciclo della violenza, prima che la situazione degeneri e sia necessario un procedimento penale. Particolarmente significativo è stato l'incremento degli ammonimenti per violenza domestica, che possono essere richiesti anche da terzi: operatori di polizia, medici di famiglia, insegnanti, vicini di casa. Chi segnala resta anonimo e questo favorisce le segnalazioni».
Il contesto culturale incide sulla violenza domestica anche a Treviso?
«La violenza domestica è trasversale e non conosce confini sociali o culturali. Certo, in alcune culture esiste una forma di assoggettamento che rende più probabile il verificarsi di questi fenomeni, ma il problema riguarda tutte le classi sociali. Anche persone colte possono diventare maltrattanti. Il concetto di donna come proprietà dell'uomo è ancora radicato, e questo divario mentale persiste anche nelle persone più istruite».
Esiste una correlazione tra devianza giovanile e violenza di genere?
«Sì, soprattutto quando il comportamento prevaricatore si manifesta già in giovane età. Nelle scuole vedo atteggiamenti preoccupanti: ad esempio, ragazze che considerano un atto d'amore il fatto che il fidanzato vieti loro di indossare una minigonna. Non è amore, è possesso. La scuola e la famiglia devono trasmettere il concetto che l'amore è libertà, non controllo».
La scuola potrebbe fare di più?
«Tutti dovremmo fare di più. La famiglia e la scuola devono insegnare ai giovani a riconoscere i segnali della violenza psicologica. Ad esempio, un genitore può dire a una figlia di vestirsi in un certo modo, ma non può essere un fidanzato a imporre questo controllo. Questi sono segnali di una mentalità pericolosa».
Gli agenti ricevono una formazione specifica su questi temi?
«Sì, la Polizia di Stato investe nella formazione in materia di violenza domestica da vent'anni. Gli operatori di volante seguono un protocollo specifico, la processing card, introdotta nel 2007 a Milano e poi estesa a tutta Italia. Questo strumento guida gli interventi nelle abitazioni per liti familiari, poiché una lite domestica non è mai banale: spesso nasconde un'escalation di violenza che può portare, nel 70-80% dei casi, al femminicidio. Questo lo sappiamo dalle analisi criminologiche, e ormai anche in Italia stiamo facendo grandi passi avanti in questo settore».