Libero dopo aver vissuto l'inferno. Carlo D'Attanasio è stato assolto dalla Corte d'Appello della Papua Nuova Guinea, in Oceania, dopo una detenzione di 5 anni in una piccola cella fatiscente di Port Moresby. Costretto dietro le sbarre con altri detenuti, senza servizi igienici, e con un cancro che lo divorava giorno dopo giorno. La notizia del suo rilascio è arrivata ieri dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha spiegato che l'uomo, velista pescarese di 56 anni, è attualmente ricoverato nell'ospedale della capitale papuana in attesa di essere rimpatriato in Italia. Ad attenderlo, a Pescara, la compagna Juanita Costantini e il figlio Enea di 9 anni, che non ha mai spesso di aspettare il suo papà.
Juanita, cinque anni sono un tempo lunghissimo, come ha reagito Enea alla notizia del ritorno del padre? È emozionato?
«Non sa nulla, ho paura che qualcosa vada storto e non voglio illuderlo. Sarebbe tremendo per lui. Questi anni ci hanno segnati tutti e sono trascorsi nel tentativo di preservare la sua serenità, per quanto complicato...».
Come gli ha spiegato questi anni di distanza?
«Mentendo. Gli ho detto che il suo papà era a lavoro lontano. Una bugia bianca. Bianca perché non ho mai dubitato, nemmeno per un istante, dell’innocenza di Carlo. Non sono stata mai sfiorata da dubbi sulla sua colpevolezza. Carlo è innocente, tant’è che non è stata raccolta una sola prova contro di lui. E ha sempre difeso la verità, senza mai cedere a compromessi».
Ma riavvolgiamo indietro il nastro. D’Attanasio era stato condannato in primo grado a una pena detentiva di diciannove anni con l’accusa di aver fatto parte di una banda di trafficanti di droga. L’uomo era partito nell’estate del 2019 per compiere il giro del mondo in barca a vela in solitaria. Nel marzo del 2020 era approdato in Papua Nuova Guinea dove aveva deciso di fermarsi per una sosta che si era prolungata 5 mesi, quando, in procinto di ripartire per portare a termine la sua impresa, un piccolo aeroplano si era schiantato sull’isola subito dopo il decollo. All’interno del velivolo la polizia aveva rinvenuto 611 kg di cocaina, probabilmente destinati all’Australia. Dopo una manciata di giorni erano stati fermati tre papuaguinesi e D’Attanasio, indicato come l’uomo che aveva portato sull’isola il carico di droga 5 mesi prima. L’uomo finisce in carcere con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti. Dopo alcuni mesi, però, le accuse contro di lui cominciano a vacillare, la stessa stampa locale inizia a dubitare della colpevolezza dell’italiano. Eppure la situazione rimane in stand-by, il processo sottoposto a continui rinvii mentre D’Attanasio inizia ad accusare malori continui, dolori lancinanti. Da qui la richiesta di essere sottoposto ad esami diagnostici, con tutti i ritardi del caso. Solo dopo un anno e mezzo viene sottoposto a una colonscopia che conferma i sospetti: l’uomo non sta bene, ha un tumore di 10 centimetri che va asportato immediatamente. Un intervento al quale non è mai stato sottoposto.
Come sta ora Carlo e come ha fatto a sopravvivere in questi anni?
«Non lo so nemmeno io, è stato un cyborg. Si è curato da solo, studiando tutto quel che poteva per contrastare il dolore e ritardare il decorso della malattia. Senza chemio, solo cure palliative con iniezioni che gli venivano somministrate anche ogni 3-4 ore. Credo che la voglia di rivedere il figlio e di veder riconosciuta la sua innocenza lo abbiano tenuto in vita. Quando rientrerà valuteremo le sue condizioni, sperando che gli resti ancora del tempo da vivere».
Cosa vi siete detti al telefono dopo aver appreso la notizia del suo rilascio?
«Pochissimo. Abbiamo pianto ininterrottamente, lo abbiamo fatto insieme . Avremo modo di ritrovarci, soprattutto Carlo avrà modo di recuperare il tempo perso con Enea. Ed è questa la mia gioia più grande».
Come avete tenuto in vita il loro legame in questi 5 anni? Quando Carlo è partito vostro figlio aveva solo 4 anni...
«Al telefono, via messaggi, perché Carlo non voleva che Enea vedesse le sue condizioni fisiche, non si voleva far vedere. Né tantomeno voleva che il figlio captasse le condizioni in cui era costretto a vivere. Ha sempre cercato di preservarlo, scudarlo, come fanno i veri papà».
E lei, Juanita? Parla sempre di suo figlio, ma lei come ha vissuto questi anni? Prima la partenza di Carlo, poi la detenzione con un’accusa gravissima...
«Io sono andata avanti grazie a mio figlio, sono andata avanti perché sapevo che Carlo era innocente e questa consapevolezza mi ha aiutato a tirare dritto. A testa alta nonostante accuse e titoli di giornale, certa che prima o poi questo momento sarebbe arrivato, che Enea avrebbe riabbracciato il suo papà. Perché per me è questa l’unica cosa che contava e conta davvero».
Quali sono stati i momenti più duri, quelli in cui ha temuto che non ce l’avreste fatta?
«La diagnosi della malattia, senz’altro quello è stato il momento più buio. Ho temuto che Carlo sarebbe morto lì, in una cella fatiscente dove era detenuto senza alcun motivo. Ho avuto paura di vederlo tornare in Italia cadavere. Lì per me è venuto giù tutto. Assieme ai giorni di silenzio inanellati, un silenzio legato alle sue condizioni di salute, quando stava così male da non riuscire nemmeno a inviare un messaggio».
Lo ha atteso come Penelope il suo Ulisse...
«Effettivamente è stata un’Odissea, ed è proprio così che Carlo mi chiama, pensi un po’. Però magari questo non lo scriva...».