«Sbarazzatevi delle questioni sociali e delle cause divisive. Niente più dipartimenti Diversity & Inclusion, niente più corsi di formazione woke. Fate solo motociclette». Con queste parole il regista e attivista conservatore Robby Starbuck si scagliava lo scorso luglio contro Harley Davidson, accusando lo storico marchio americano di aver «perso il contatto con la propria clientela» per dedicarsi a boot camp Lgbt e alla sponsorizzazione di eventi Pride. Meno di un mese dopo, in seguito a una durissima campagna di boicottaggio online, l’azienda annunciava l’abbandono totale delle sue politiche progressiste. Di lì a poco l’avrebbero seguita Nike e Jack Daniel’s, poi Walmart, McDonald's, JPMorgan. Adesso quella stessa ondata anti-woke, preludio dell'imminente arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, sta attraversando la Silicon Valley. E a Mark Zuckerberg sono bastati un video e una nota interna per cancellare in cinque minuti vent’anni di storia aziendale. Prima l’annuncio, martedì, dell’interruzione del programma di fact-checking per la moderazione dei contenuti pubblicati su Facebook, Instagram e Threads. Poi la nota interna rilasciata venerdì, con cui il numero uno di Meta ha eliminato con effetto immediato tutti quei programmi nati per promuovere l'inclusività all’interno dell’azienda: via il ruolo di Chief Diversity Officer (che si occupava di favorire le relazioni interpersonali tra gli impiegati appartenenti a culture diverse), stop agli obiettivi di inclusività nelle assunzioni e niente più corsie preferenziali per i fornitori gestiti da minoranze. Nella nota, la casa madre di Facebook afferma di voler cambiare rotta perché «il quadro legale e politico relativo agli sforzi per la diversità e l'inclusione negli Stati Uniti sta cambiando».