ROMA «Al lavoro un minuto dopo» la stretta di mano tra Donald Trump e Ursula von der Leyen, che oggi a Turnberry, in Scozia, dovrebbe suggellare la fine della guerra commerciale sulla rotta Washington-Bruxelles. L’uso del condizionale è d’obbligo considerando che con il tycoon i colpi di scena sono pane quotidiano. Ma l’intesa, stavolta, sembra davvero a un passo, ruota attorno a dazi del 15% accompagnati, però, dal diktat di un “buy american” che il Presidente statunitense è pronto a celebrare in pompa magna.
Giorgia Meloni scalda i motori, pronta a mettersi in moto una volta incassato l’accordo quadro che la numero 1 di Palazzo Berlaymont oggi dovrebbe chiudere con The Donald. Obiettivo salvare i “gioielli” del made in Italy, infilandone il maggior numero possibile nella lista dei prodotti europei che verranno graziati dai rialzi alle dogane. L’appuntamento tra i due leader è al pomeriggio, una volta dismessa da Trump la sacca e le mazze da golf che lo hanno condotto fino in Scozia. Nelle stesse ore la premier italiana atterrerà ad Addis Abeba per co-presiedere il secondo summit dei Sistemi alimentari delle Nazioni Unite, nonché puntellare alcuni progetti messi a segno in Etiopia con il Piano Mattei. La testa però sarà a Turnberry, dove si chiude il primo step di una partita che è ancora tutta da giocare per un Paese come il nostro che domina nell’export negli States, secondo solo alla Germania. A Palazzo Chigi per ora il bicchiere viene considerato mezzo pieno. «Il 15% - spiegano al Messaggero fonti vicine a Meloni - è un dazio sostenibile, per noi non particolarmente impattante. A ben guardare, non cambia molto infatti dal balzello del 10% che l’Ue ha tentato di portare a casa nelle settimane scorse, perché la percentuale attuale è comprensiva di quel 4,8% che deriva dalla clausola della nazione più favorita». Tradotto: quel 10% che ha visto saltare il tavolo dei negoziati - con la minaccia di Trump di portare l’asticella al 30% a partire dal 1 agosto- è comparabile a quel 15% su cui dovrebbero chiudere oggi von der Leyen e il presidente Usa. Con il tycoon pronto a intestarsi una doppia vittoria: aver costretto l’Europa a pagare dazi salati, ma anche ad acquistare più prodotti “made in Usa”. Gas liquido e armi, ma anche petrolio e investimenti infrastrutturali, riferiscono fonti di stanza a Bruxelles.
LA STRATEGIA DEL TYCOON - La strategia comunicativa di Trump preoccupa non poco l’Europa, che rischia di uscirne ritratta con le spalle al muro. Mentre a Roma le opposizioni si preparano a salire sulle barricate, puntando il dito sul «rapporto privilegiato» (copyright Meloni) della presidente del Consiglio con l’inquilino della White House, e che - l’accusa che aleggia - non avrebbe prodotto alcun frutto ma solo danni. «Non ti curar di loro ma guarda e passa. Giorgia ora deve solo pensare a limitare i danni per il made in Italy...», spiega un ministro che ha sentito la premier in queste ore. Si torna alla lista delle «eccezioni», vale e dire l’elenco dei prodotti che continueranno ad approdare Oltreoceano a dazi zero. Roma lavora per salvaguardare i “must” del comprare italiano in America, con Meloni che, «un minuto dopo» il sigillo sull’accordo quadro, è pronta a lavorare sul doppio binario: Bruxelles da un lato, Washington dall’altro. Una partita lunga e complessa, da chiudere il prima possibile per arginare i danni che l’incertezza genera sui mercati. Salvaguardando i prodotti che negli States l’Italia esporta di più, rintracciabili non solo sotto la voce “food and beverage” - olio, vino, pasta, formaggi, salumi - ma anche componentistica, macchinari e apparecchi industriali, moda e tutto il comparto dei beni di lusso, mobili e oggetti di design compresi. Il mondo del made in Italy guarda a Turnberry col fiato sospeso. «Molto dipenderà da come verrà strutturata la tassazione - dice il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini - se fosse applicata in forma flat, andrebbe ad assorbire i dazi preesistenti e, in alcuni casi, come i prodotti lattiero-caseari e l'olio extravergine d'oliva, si potrebbe arrivare quasi a un impatto nullo. Diverso il caso del vino, che rischia invece un aumento delle imposte». Anche perché, stando a quanto filtra da Bruxelles, la possibilità di vedere spumanti, rossi, bianchi, rosé e champagne tra gli esentati sarebbe ridotta al lumicino. Ma c’è un’altra variabile che mina l’export europeo, togliendo il sonno agli imprenditori e gettando nello sconforto le cancellerie di mezza Europa: il dollaro debole, di gran lunga svalutato sull’euro. «Un bel grattacapo e la conferma dell’antico adagio “piove sempre sul bagnato”. Qui ne sappiamo qualcosa», scherzano, ma neanche troppo, a Palazzo Chigi.