MARGHERA - «Per me è finito un incubo.
Anna (nome di fantasia) oggi ha quasi ottant’anni. In via del Bosco era arrivata quando i condomini Ater erano nuovi di zecca, nel 1983, e vi è rimasta fino al 2023 quando, dopo un ricovero in ospedale, con un referto ed una denuncia contro chi la stava perseguitando in mano, ha ottenuto il cambio casa. In un posto dove regna il degrado e non ci sono più regole di convivenza, accadeva - e continua a succedere - che qualcuno approfitti delle persone più anziane e che vivono sole, costrette a barricarsi in casa.
«Dovevo fingere di non essere in casa. Suonavano notte e giorno il campanello dei corridoi interni. Di giorno i ragazzini, di notte quelli un po’ più grandi. Non aprivo mai. Una mattina mio figlio, che era venuto a trovarmi, aveva trovato sullo zerbino una finta bomba a mano. Me l’ha detto solo poco tempo fa, quando ormai mi ero trasferita, per non farmi prendere altra paura».
Come quella notte.
«Era come una tortura, anche perché queste case sono fatte su due piani: l’ingresso è al piano superiore e bisognava salire le scale ogni volta. Quella notte mio figlio aveva deciso di stare a casa con me. Quando suonarono per l’ennesima volta, mio figlio uscì di corsa per correre dietro a quei ragazzi... Ho temuto il peggio e mi sono sentita male. Mi portarono in ospedale per tenermi sotto osservazione».
Ma avevano preso di mira solo lei?
«No, tempo prima era toccato ad un’altra inquilina del piano di sotto, dopo che le era morto il marito».
E nessuno faceva niente?
«Un tempo c'era qualcuno che controllava i ragazzi. C’era il capofamiglia dei Levak che, quando vedeva cose del genere, interveniva. Quando è morto tutto è precipitato: queste bande hanno iniziato a fare quello che volevano. Non erano ragazzi solo di questi condomini, perché ne arrivavano anche da fuori»
E poi c’erano, e ci sono ancora, gli abusivi.
«Cominciarono quelli dei centri sociali che, una volta entrati, si sono portati dietro anche parenti e amici».
In passato, tra gli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, lei si era data da fare in prima persona per migliorare il quartiere.
«Sì, assieme ad altri abitanti avevamo formato un comitato ed avevamo il supporto dei servizi sociali del Comune. Poi, quando questo è venuto a mancare, le cose sono progressivamente peggiorate».
Fino al degrado più totale.
«Fino a una decina di anni fa c’erano tante cose che non andavano, ma si riusciva a sopravvivere. Poi sono iniziate le discariche nei garage per non parlare delle condizioni dei palazzi senza manutenzioni. Le telecamere? Avevamo detto subito che non dovevano essere puntate all’esterno ma avrebbero dovuto controllare i corridoi per vedere cosa combinava certa gente. Sulle scale trovavamo sporcizia, preservativi, assorbenti, escrementi. Una ditta delle pulizie aveva perfino dato le dimissioni».
Ma l’Ater che faceva?
«Negli ultimi anni ci rispondevano “rivolgetevi all’amministratore condominiale” su qualunque cosa. E l’amministratore a sua volta diceva che “non poteva fare nulla, che avanzava soldi dall’Ater o dagli inquilini”. Chiedevamo di aggiustare i portoni e la risposta era “non serve, tanto poi li spaccano di nuovo».
Un incubo. Davvero.
«Guardi, qualche tempo fa sono tornata in via del Bosco per andare a trovare un’amica. Mi è venuta l’ansia e ho deciso che non ci rimetterò più piede. Quando arrivammo nell’83 non sapevamo chi avevamo di fianco in quei 130 appartamenti, ma un po’ alla volta si era costruita in qualche modo una comunità. Poi, come quei palazzi, si è disgregato tutto. Andarsene è stata una salvezza».