Giovanni Brusca, il boia di Capaci, è oggi un uomo libero. Dopo 25 anni di carcere e quattro di libertà vigilata, è terminato l’ultimo vincolo impostogli dalla magistratura di sorveglianza. Colui che premette fisicamente il pulsante che, il 23 maggio 1992, fece esplodere 500 chili di tritolo sull’autostrada A29, causando la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e di tre agenti della scorta, ha ufficialmente saldato il suo debito con la giustizia.
Giovanni Brusca chi è
Originario di San Giuseppe Jato e nato il 20 febbraio 1957, Giovanni Brusca è figlio del mafioso Bernardo Brusca. A soli 19 anni entra a far parte della cosca guidata dal padre, iniziando così la sua ascesa criminale all’interno di Cosa Nostra. Ben presto viene arruolato nel gruppo di fuoco che esegue omicidi su ordine diretto di Totò Riina, insieme a nomi tristemente noti come Antonino Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino, Pino Greco detto "Scarpuzzedda", Mario Prestifilippo, Filippo Marchese, Giuseppe Lucchese, Giovanbattista Pullarà, Vincenzo Puccio e Calogero Ganci. È proprio con uno di loro, Antonino Madonia, che nel 1983 Brusca prepara l’autobomba – una Fiat 126 verde imbottita con 75 chili di esplosivo – utilizzata il 19 luglio di quell’anno a Palermo per uccidere il giudice Rocco Chinnici, ideatore di quello che sarà poi conosciuto come il pool antimafia, insieme agli agenti della sua scorta.
L’ascesa criminale e la latitanza
Nel 1984 viene emesso un mandato di cattura nei confronti di Giovanni Brusca con l’accusa di associazione mafiosa, sulla base delle rivelazioni di alcuni pentiti.
Nel 1992, con l’inizio della guerra mafiosa contro lo Stato, Brusca si impone come uno dei sicari più sanguinari di Cosa Nostra. In quello stesso anno fa uccidere Vincenzo Milazzo, boss della Famiglia di Alcamo che si era ribellato a Totò Riina, e pochi giorni più tardi ordina anche l’assassinio della compagna del boss, incinta di tre mesi, strangolata su sua disposizione.
Da Capaci alla libertà
Giovanni Brusca, boss del mandamento di San Giuseppe Jato e fedelissimo del capo dei capi Totò Riina, è stato uno degli esecutori materiali della strage di Capaci. Non un semplice gregario, ma colui che attivò il telecomando da una collinetta nei pressi dell’autostrada, dando inizio alla carneficina. Conosciuto con il soprannome di “lo scannacristiani”, Brusca è stato coinvolto in circa 150 omicidi. Arrestato il 20 maggio 1996 a Cannatello, una frazione balneare del comune di Agrigento, fu per anni uno dei latitanti più ricercati d’Italia. Dopo un primo tentativo di depistaggio, decise infine di collaborare con la giustizia.
Le stragi, gli omicidi, il piccolo Di Matteo
Oltre alla strage di Capaci, Brusca è ritenuto responsabile della pianificazione della strage di via D’Amelio e degli attentati del 1993 a Milano, Roma e Firenze. Ma tra i crimini più efferati c’è anche il sequestro e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo. Il bambino fu rapito a 12 anni, tenuto prigioniero per 779 giorni, poi strangolato e sciolto nell’acido. Una vendetta disumana per punire il padre del ragazzo per aver rotto l’omertà.
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Il 15 gennaio 1993 quando Totò Riina fu arrestato, Brusca ha continuatto la strategia degli attentati con alcuni famosi boss tra cui Matteo Messina Denaro.
L'arresto, il pentimento e la legge voluta da Falcone
Il 1996 segna la fine della latitanza di Giovanni Brusca. Dopo essere sfuggito a un primo blitz nel mese di gennaio in una villa a Borgo Molara, dove si nascondeva con la compagna e il figlio di cinque anni, viene infine catturato il 20 maggio nella sua abitazione di contrada Cannatello/Fiumenaro, al civico 34 di via Papillon, una frazione di Agrigento. L’operazione di arresto coinvolse oltre 400 agenti e 40 mezzi speciali della polizia vengono. Ciò che rende la storia giudiziaria di Giovanni Brusca particolarmente controversa è il fatto che la sua scarcerazione è stata possibile grazie a una legge fortemente voluta proprio da Giovanni Falcone. Il magistrato palermitano fu tra i principali fautori di una normativa che riconoscesse ai collaboratori di giustizia - i cosiddetti pentiti - significativi benefici penitenziari in cambio di una reale collaborazione. La legge 15 marzo 1991, n. 82, ha previsto la possibilità di ridurre sensibilmente le pene - nel caso di Brusca, 26 anni di carcere invece dell’ergastolo - e di accedere a misure protettive per sé e i propri familiari. Obiettivo: rompere il muro di silenzio della mafia dall’interno.
La collaborazione con la giustizia e la trattativa Stato-mafia

Giovanni Brusca è stato uno dei collaboratori di giustizia più importanti nella lotta alla mafia. Le sue dichiarazioni hanno svelato dettagli chiave sulla strage di Capaci, sull’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo e sul funzionamento della cosca dei corleonesi. Nel 2000 diventa ufficialmente collaboratore di giustizia, uscendo dal 41-bis; nel 2004 ottiene permessi premio per buona condotta. Il 31 maggio 2021, a 64 anni, esce dal carcere grazie ai benefici per i collaboratori “affidabili”.
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È stato inoltre il primo pentito a parlare della cosiddetta trattativa Stato-mafia, i contatti riservati tra ufficiali del Ros e boss mafiosi dopo l’uccisione di Falcone e prima di quella di Borsellino.