Stupri come arma di guerra.
All'epoca, la donna raccontò al quotidiano Libération che avevano «minacciato di violentarla a turno». Oggi rivela che non ha detto la verità, era troppo choccata, voleva solo morire. Dal 2019, Iryna Dovgan dirige la rete SEMA Ucraina, un'organizzazione internazionale per i sopravvissuti ai crimini sessuali durante i conflitti armati. Parlare delle violenze sessuali a distanza di anni è ancora un calvario. Ma dopo l'invasione russa del 24 febbraio sta incoraggiando le donne ucraine in Donbass ad abbattere il muro del silenzio.
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Ad oggi, registra Le Monde, sono stati ufficialmente segnalati all'ufficio del pubblico ministero solo un centinaio di casi. «Ma sono una goccia nell'oceano, in realtà i numeri sono molto più alti». Una fotoreporter ucraina, Alisa Kovalenko nel 2014 stava filmando la vita quotidiana di un battaglione ucraino nel Donbass quando venne arrestata dai separatisti, convinti di aver catturato un elemento "fascista". Dopo averla minacciata, fu portata in un appartamento, le venne ordinato di spogliarsi e di lavarsi. È stata rilasciata quattro giorni dopo. I crimini sessuali erano già allora una pratica diffusa.
Secondo Volodymyr Shcherbachenko, direttore dell'ONG Eastern Ukrainian Center for Civic Initiatives, "un uomo su quattro e una donna su tre" tra i prigionieri rilasciati dal 2017 nel Donbass, dopo essere stati detenuti dai separatisti filorussi, sono stati vittime di violenza sessuale.
Nel 2019 il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha approvato con 13 voti a favore e due astenuti (Russia e Cina) una risoluzione sulla violenza sessuale in conflitto, volta a combattere l'uso dello stupro come arma in guerra.
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